Read a book! – “Fino a quando la mia stella brillerà” di Liliana Segre

Da oggi si inaugura una nuova rubrica del blog dedicata ai libri, Read a book!, con le recensioni di quelli che mi sono piaciuti, che ho letto di recente o che comunque meritano attenzione, siano essi dei saggi o dei romanzi.

Il primo libro che apre la rubrica è Fino a quando la mia stella brillerà di Liliana Segre pubblicato per la prima volta nel 2015 ma che ho avuto modo di scoprire e leggere solo recentemente, in occasione della Giornata della Memoria, il 27 gennaio. Liliana Segre è testimone della Shoah dal 1990 e insieme alla giornalista e scrittrice Daniela Palumbo ha raccontato nero su bianco la sua storia, dalla spensieratezza dell’infanzia alla dura e crudele realtà del campo di concentramento di Aushwitz-Birkenau alla sola età di 13 anni.

Ma vediamo la sua storia e com’è stata raccontata.

PARLIAMONE

Questo è il grande dono di Liliana – conserveremo anche la speranza, la forza e l’amore per la vita che trasmette la sua testimonianza. Abiterà nei nostri cuori l’immagine di quella ragazzina che, rinchiusa nel campo di Auschwitz-Birkenau, ogni sera guardava il cielo e cercava la sua stella. Poi, ripeteva dentro di sé: “Finché io sarò viva, tu, stellina, continuerai a brillare nel cielo. Stai tranquilla, io non morirò. Io sarò sempre con te”.

Si chiude così il prologo scritto da Daniela Palumbo, che ci introduce un po’ al racconto di Liliana Segre nelle pagine successive. La vita di Liliana, così come quella di ogni sopravvissuto alla Shoah, si divide in prima, durante e dopo la deportazione nei campi di concentramento. Infatti il libro è strutturato in tre parti in cui abbiamo modo di conoscere Liliana, dalla bambina vivace che vive in corso Magenta a Milano con il padre Alberto, la balia Caterina e i nonni paterni, alla ragazzina che realizza di essere ebrea nel momento in cui non può più andare a scuola per delle “stupide regole” (le leggi razziali, ndr) che saranno solo l’inizio degli orrori che vivrà nel campo di concentramento Aushwitz-Birkenau.

L’infanzia di Liliana Segre è spensierata, è una bambina circondata di affetto dal padre Alberto, i nonni paterni Olga e Giuseppe, detto Pippo, la balia Caterina e la cameriera Susanna. Purtroppo la madre Lucia, gravemente malata, è venuta a mancare all’età di 25 anni, quando Liliana aveva appena un anno, ma i nonni materni Bianca e Alfredo, pur non abitando con loro sono molto presenti. È anche un po’ pestifera – in un capitolo racconta che la nonna Olga preparava sempre dei dolci quando invitava le amiche per chiacchierare e giocare a carte e lei di nascosto ne rosicchiava sempre qualcuno – gelosa del suo papà e con un grande cuore – una volta voleva fare un regalo alla nonna Bianca e le nascose le mille lire che le aveva dato nonno Pippo in un taschino della borsa, così non avrebbe potuto rifiutarle.

La spensieratezza purtroppo viene bruscamente interrotta quando con l’emanazione delle leggi razziali, viene espulsa e non può più frequentare la terza elementare:

Quel giorno segnò un prima e un dopo nella mia infanzia. Il prima della vita di Liliana bambina, allegra e serena, e il dopo, di Liliana Segre bambina ebrea, espulsa, poi esclusa, poi internata. […] Quello che accadeva a noi ebrei, avveniva nell’indifferenza generale. Per tutti era come se niente fosse. L’indifferenza fa male. È l’arma peggiore. La più potente. Perché se qualcuno ti affronta e ti vuole fare del male, puoi difenderti. Ma se intorno a te c’è il silenzio, come fai a difenderti?

Continua poi a studiare in una scuola privata, dove conosce la maestra Vittoria, con cui tutt’oggi ha dei buoni rapporti anche con i figli che le mandano fiori il 27 gennaio. Nel 1941-42 frequentò la prima e la seconda media in un istituto di suore, poi iniziati i bombardamenti, nel 1943 si trasferirono da Milano a Inverigo, in Brianza, dove conobbe altre famiglie sfollate e strinse qualche amicizia. I confini poi vengono chiusi e gli ebrei non possono fuggire, così l’8 settembre di quell’anno Liliana e suo padre decidono di cercare di salvarsi in Svizzera, fuga che si interromperà ad Arzo, nel Canton Ticino. Lì due guardie svizzere li interrogano e non credono che siano ebrei che sfuggono dal nazi-fascismo, ma che il padre evitasse il servizio militare. Quindi li arrestano e di carcere in carcere, prima separati poi riuniti, tra umiliazioni e maltrattamenti, ritornano a Milano, nel carcere di San Vittore.

Il 30 gennaio 1944 Liliana e il padre Alberto, insieme ad altre 603 persone, sono chiamati dai nazisti e messi in fila nel cortile del carcere, fatti salire su un camion diretto alla Stazione Centrale di Milano e da lì caricati su vagoni bestiame con a terra un po’ di paglia e un secchio, in viaggio verso Auschwitz-Birkeau. Arriveranno stremati, disperati, spaventati il 6 febbraio 1944. Le loro strade però poi si divisero, lei assegnata al settore femminile di Birkenau e il padre a quello maschile di Buna-Monowitz.

Da quel momento in quella ragazzina di soli tredici anni scatta un forte spirito di sopravvivenza, per cui si chiude in se stessa diventando quasi egoista, perché pensare alle sofferenze del lager o ai ricordi troppo felici l’avrebbe resa debole.

Filtravo le cose che potevo ricordare e scartavo quelle che non avrei avuto la forza di sopportare. Non lo facevo consapevolmente, era un modo per sopravvivere. Usavo le mie forza per restare lontana dal lager, almeno con la mente. Se sono sopravvissuta è anche per l’intensità con la quale esercitavo questa volontà. Alla fine della giornata, il mio mondo di fantasia, al quale mi aggrappavo per “fuggire” dal campo, era diventato una piccola stella che vedevo in cielo. Sempre la stessa. L’avevo notata una sera di cielo terso, quando i nostri aguzzini davano pochi minuti di tregua. Da quella sera, ogni giorno quando arrivava il buio la cercavo, le parlavo. Ero felice di ritrovarla, significava che un altro giorno era passato ed ero ancora viva. Mi identificavo con quella stella. Vedendola, dentro di me, le dicevo: “Finché io sarò viva, tu stellina, continuerai a brillare nel cielo. Stai tranquilla, io non morirò. Io sarò sempre con te”.

Nel gennaio 1945 i nazisti fanno saltare in aria il lager perché i russi si avvicinano e devono eliminare le prove dei loro orrori. Comincia la marcia della morte, che dura settimane, arrivano dapprima al campo di Ravensbruck, poi dopo poco, a marzo, a quello di Malchow, in Germania, dove vi rimangono fino ad aprile. A maggio, finalmente vengono liberati dagli americani, arrivati a bordo delle loro jeep nel campo. Distribuiscono cioccolata, sigarette, frutta e frutta secca. I prigionieri sono così tanti che decidono di dividerli per nazionalità e destinati alle case requisite agli sfollati nel nord della Germania. Da quel momento Liliana comincia a prendere di nuovo il contatto con la realtà, con gli altri e con se stessa. Con una cartolina della Croce Rossa scrive a casa, al signor Corti, che li aveva ospitati ad Inverigo, fa sapere che è viva e arrivata a Milano viene accolta dai nonni materni e dagli zii che si sono salvati, i primi rifugiandosi in un convento e i secondi scappando in tempo per le montagne. Il padre e i gli altri nonni non erano più tornati.

Ritornare alla normalità però non è così semplice e non basta un “Ricomincia a vivere, Liliana” o “Pensa al futuro adesso!”. È facile per gli altri dimenticare, ma non per Liliana, che ha visto e vissuto sulla sua pelle umiliazioni indicibili, che ha sentito le grida di giorno e di notte di chi subiva punizioni solo per essere nato, e ha sentito l’odore acre e il fumo che usciva dai forni delle SS.

Tutte le cose che avevo messo da parte nel lager perché mi facevano troppo male, chiedevano il conto. Sentivo il dolore spaventoso della mancanza di papà, ricordavo ogni minuto della mia vita passata con lui, non averlo accanto era insopportabile per me. Sentivo la mancanza dei nonni e di quello che ero con loro: una bambina amata, affettuosa, felice di esistere e di vivere. Mi guardavo allo specchio nella mia nuova vita e e vedevo una ragazza grassa, (per mesi, dopo la fame del lager, era diventata insaziabile, ndr), informe, che non riusciva ad adattarsi agli altri, e gli altri non riuscivano ad adattarsi a lei. […] Ero un animale ferito. Mordevo e graffiavo, lo facevo con le parole, con i silenzi e i modi bruschi. Io volevo essere amata così com’ero. Ma non ci riuscivano.

Pian piano però la situazione migliora, termina gli studi al liceo classico, con l’aspirazione di diventare giornalista, come la cugina Tullia Zevi. E nell’estate del 1948 conosce Alfredo, la sua prima cotta, la prima persona che le fa battere il cuore. Conoscendosi e ascoltandosi si capiscono e si accettano. Anche lui è stato prigioniero dei tedeschi, mandato nei campi IMI, internati militari italiani, per i militari che nel 1943 si rifiutavano di aderire alla Repubblica di Salò. Decidono quindi di sposarsi e, dopo anni da Auschwitz, Liliana riesce a piangere di nuovo, alla nascita del primogenito che chiama Alberto, come il padre.

Liliana Segre dal 1990 va spesso nelle scuole a dare testimonianza della Shoah – anche se ora un po’ meno, data l’età e la voglia di dedicarsi alla famiglia e ai nipoti – e ai ragazzi dice spesso:

Se uno di voi si ricorderà di me quando non ci sarò più, sarò già felice». Mi basta anche solo un ragazzo, perché a sua volta, seminerà altra memoria. Io le chiamo “le candele della memoria”. Perché più i giovani avranno ascoltato una testimonianza dalla viva voce di chi l’ha vissuta, più potranno contrastare le tesi di chi racconta che la Shoah non è esistita. Noi testimoni dobbiamo seminare fino all’ultimo i ricordi, sperando che le generazioni continuino a trasmettere a loro volta ciò che hanno ascoltato da noi.

Questo libro è una testimonianza davvero toccante e commovente degli orrori dell’Olocausto. Il racconto di Liliana Segre ci fa vivere la terribile esperienza dal punto di vista di una bambina, che ancora non capisce cosa e perché stia accadendo e che non si capacita di come l’uomo possa essere un contenitore di così tanto odio e l’artefice di tali atrocità. Per questo è importante ricordare, leggere le testimonianze dei sopravvissuti alla Shoah: per evitare che la storia si ripeta e che l’odio covato dall’uomo sfoci in altre crudeltà che sottomettono, umiliano ed uccidono altri esseri umani soltanto perché esistono, perché hanno una nazionalità, una religione, un orientamento sessuale, un’identità di genere diversi dai propri.

L’odio purtroppo è un seme che se innaffiato quotidianamente con l’ignoranza e la cattiveria può produrre mostri senz’anima e i media oggi possono esserne un potente concime, soprattutto se le informazioni che vengono divulgate sono senza fondamento e giocano con la presunta paura di chi teme ciò che non conosce.

Voi avete già letto questo libro? Potete farmi sapere cosa ne pensate qui sotto nei commenti.

Alla prossima recensione.

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